Le donne sono assaggiatrici migliori? Avrei da ridire…

murales graffiti donne

In un recente articolo della rivista online WineNews si conferma, sulla base di dati scientifici (in)equivocabili, che le donne sono più brave dei maschi nel ruolo di assaggiatrici del vino. Due test a distanza ravvicinata di tempo: il primo del 2014, ad opera del “Sensory Science Testing and Research Centre” del Kent, in Gran Bretagna, mentre il secondo è stato realizzato dalla Universidad Politécnica de Madrid.

Le ragioni di tale superiorità alloggiano nelle seguenti parole: “in generale gli uomini hanno dato punteggi mediamente più alti sull’intera gamma di emozioni legate ai vini degustati, mentre le donne, stando su punteggi più bassi, hanno individuato differenze molto più marcate tra un vino e l’altro”. Ma non basta: “per la rivista scientifica ‘Food Quality and Preference’, la gamma di aromi che una donna riesce ad individuare, e giudicare, è mediamente più ampia di quella degli uomini, ma non è tutto qui. Anche l’età ha un suo peso, e se i consumatori più giovani sono anche i più critici, i più in là con gli anni tendono ad entusiasmarsi maggiormente, approccio che si riflette ovviamente sui punteggi, più alti tra i bevitori più maturi, più bassi tra i più giovani. Inoltre, come tendenza generale, la ricerca rivela che i vini con aromi fruttati e floreali suscitano emozioni più positive di quelli caratterizzati da note di liquirizia, chiodo di garofano e vaniglia: freschezza e bevibilità hanno la meglio su vini complessi e invecchiati”.

Il verbo essere all’indicativo presente è, in questo caso, d’obbligo: “ancora oggi, dal punto di vista strategico, il verbo essere serve un po’ a tutto, è dotato dei significati più contraddittori; sbrigativo, discreto e innocente, trasforma, con un colpo di bacchetta magica, un’opinione in verità, una speranza per il futuro in antichissima realtà, una semplice affermazione in Natura universale; […] Ecco cosa c’è nel verbo essere della retorica oltranzista: una furibonda collusione tra l’indicativo e l’ottativo, la trasformazione impossibile del desiderio in fatto, del futuro in passato, al di sopra di un presente che resiste”.

Ma non so, non ne sono del tutto convinto delle ragioni summenzionate. Ora, ma uso proprio il condizionale, dovrei arrampicarmi, come nelle difese più idiote e meno plausibili che la retorica umana abbia mai inventato, che semmai non fanno dimostrare l’esatto opposto, che non ce l’ho con il genere femminile, che mia moglie mi tratta di solito bene, anche quando non me lo meriterei, che usa contro di me il battipanni freudiano solo nei momenti psichicamente convenienti o che mia madre, pur tirando qualche manrovescio giovanile ed esuberante, mi ha nutrito di cibo e di sapienza sabauda; oppure che mia sorella, di nove anni più piccola, tranne che una volta, non mi ha mai chiesto di uscire con i suoi amici. Insomma, quando ho a che fare con delle categorie sociali erga omnes me la rido sotto i baffi e non è una metafora. Rido, quando mi pare rido, di quelli che ce l’hanno con i tedeschi, con i francesi o con gli slavi; oppure con gli africani, con i brasiliani o, più stancamente, con i polinesiani. E gli chiedo: “Perché, li conoscete tutti?”.

Rido di più o ancor di meno, quasi per non piangere, quando qualcuno afferma che qualcun altro ce l’ha nel sangue: il basket, il jazz o la rumba, che poi è sempre un’allegria del tango. E non parliamo delle dimensioni falliche! Quando ho capito che non posso rappresentare tutti quelli con la carnagione biancastra, ho pensato che alcune forme mitologiche confezionate da misurazioni quanto-probabilistiche servono in realtà a perpetrare modelli interpretativi sostenuti da esagerazioni di luoghi comuni. In altri termini favoriscono la riproduzione di stereotipi sociali, con tutto ciò che ne deriva e ne va a deriva. E le eccezioni che confermano le regole non fanno altro che sfibrare queste benedette regole che, a rigor di logica, non sono più tanto delle regole, almeno nella misura in cui ogni singola eccezione può assurgere a regola stessa. Ma se così fosse non esisterebbe nessuna regola generale e quindi nessuna possibile eccezione. Che l’eterno pupattolone maschile vada in completo sollucchero di fronte ad un qualsivoglia bicchierozzo di buon vino, esaltandolo in maniera e misura sensibilmente maggiore di una qualsivoglia donna, è ascrivibile molto probabilmente “al rinforzo narcisistico della ‘gemellarizzazione’ (il senso di amicizia e di ‘fratellanza’ sociale confusiva – ‘io e te siamo uguali’ – indotto dall’alcool) che lì per lì fornisce un rinforzo al senso di coesione al Sé, altrimenti carente”.

Detto in altri termini il vino è un po’ come il latte materno, che fa stare subito bene e che toglie la tristezza. Ma poi c’è latte e latte, tetta e tetta e biberon e biberon. E non parliamo neppure delle cinquecento sfumature di antociani. Pare a tal proposito che i maschi ne percepiscano a malapena due e che uno di questi venga loro suggerito dall’amico di banco. Ma si sa che un maschio medio non può occuparsi di più di una cosa nello stesso istante, per cui non potrebbe afferrare nella medesima misura più elementi contemporaneamente. La domanda è se la medietà, in questo caso, sia fornita da una media matematica ponderata o dalla mediocrità sociale media a cui un maschio medio deve attenersi per dimostrarsi tale nei confronti di un insieme di regole sociali, per lo più maschili, che rinforzino questa identità sociale attesa e attestata.

Che i giovani siano più critici dei vecchi è poi una bella scoperta! Nel 1968 qualche giovane rivoltoso girava nudo nei parchi ornato da fiori e da madre natura; qualcun altro si immergeva nelle rive del Gange; altri ancora riempivano di kerosene bottiglie svuotate di grignolino scadente; altri ancora facevano i bancari, i dottori della mutua e, altri ancora, persino i benzinai. Ora i giovani criticano di più dei vecchi criticoni, ma significa solo che questi ultimi non ce la fanno più, pure se vorrebbero. E poi vogliamo mettere la freschezza fruttata e floreale paragonandole alla pesantezza di note evolutive terziarie del quaternario inferiore? Suvvia, ma non si tratterà piuttosto di educazione al gusto (o ai disgusti) su cui imponenti campagne pubblicitarie zuccherate stanno mietendo vittime ad ogni latitudine dell’orbe terracqueo?

Perché scambiare condizioni sociali per suggestioni genetiche non è un’operazioncina da poco. Di razza umana, alla fine, sappiamo che ce n’è una sola; di uccelli tanti e di tanti colori e dimensioni. Ma questa è la biodiversità.
di Pietro Stara